Globalizzazione

Credo che sia necessario chiarire che cosa si intenda con il termine globalizzazione, che spesso viene usato per qualificare la finanziarizzazione del sistema economico mondiale. La globalizzazione, intesa in questo modo, viene considerata come se fosse una condizione necessaria all’evoluzione della società post industriale a seguito della caduta dell’URSS e con questa la fine del pensiero del socialismo reale.

Si presenta in questo modo la globalizzazione come se fosse la naturale evoluzione della società, quando invece è una scelta politica e culturale precisa e consapevole.

Si presenta come un’ineluttabile conseguenza un percorso dell’evoluzione storica spontanea, che appiattisce ad una sola dimensione, quella di merce, ogni espressione umana, così da deformare le strutture sociali, dalle più evolute e democratiche a quelle meno giuste ed equilibrate nella distribuzione di beni e servizi.

Il termine globalizzazione descrive invece, secondo me, la trasformazione che sta avvenendo nella società contemporanea tutta. Una trasformazione dovuta agli strumenti tecnologici che ormai sono a disposizione di una grande fetta di umanità e che stanno cambiando i due parametri di riferimento che l’umanità si è sempre data: quelli di spazio e di tempo. Fino ad oggi lo spazio e il tempo erano considerati dati oggettivi e per questo comuni a tutti gli uomini come dimensioni della realtà, oggi invece sono sempre più dimensioni soggettive, in quanto gli strumenti informatici danno la possibilità a ciascun essere umano, che ne possieda un esemplare, di mettersi in contatto con tutti gli altri esseri umani dovunque si trovino ad una velocità prossima a quella della luce.

Globalizzazione quindi perché finalmente la Terra viene riconosciuta nella sua forma propria di globo dove l’alto e il basso, la destra e la sinistra, il sopra e il sotto non sono più direzioni determinate e fisse, ma dipendono da come uno si pone o da come gli altri lo definiscono.

Tutto questo nella quasi totale inconsapevolezza delle persone, e soprattutto delle classi dirigenti che continuano a leggere la realtà attraverso i vecchi schemi mentali, che ormai non sono più adatti a tale funzione e che creano perciò un generale disorientamento. Inoltre, laddove ci sia una maggiore consapevolezza, rimane il fatto che questa realtà è del tutto nuova e sconosciuta e l’umanità si trova nelle stesse condizioni degli uomini primitivi che devono esplorare il mondo per conoscerlo e creare dei punti di riferimento; e inoltre anche il linguaggio come il pensiero è ancora strutturato secondo i vecchi parametri di spazio e tempo, perciò anch’esso è inadatto a descrivere la nuova realtà.

La realtà oggi si presenta come il risultato di un insieme di stratificazioni di fatti e cose regolamentate e organizzate secondo regole e soluzioni di carattere temporaneo e puntuale che non soddisfano certamente le necessità che sono ormai di carattere universale e contemporaneo.

La realtà è complessa, si presenta come un insieme stratificato di fatti ed eventi, ma se viene considerata usando uno strumento d’analisi puntuale diventa difficile comprenderla ed orientarsi in essa. Con uno sguardo puntuale anziché complessivo non si riesce ad interpretarla secondo i suoi processi, se si vuole intervenire per scioglierne i nodi storici, per risolvere i problemi che naturalmente sorgono in una realtà complessa, non lo si può fare con un’ottica puntuale e temporanea, è necessario prendere atto del cambiamento e agire di conseguenza.

Il fatto che le persone che compongono la società siano più consapevoli del valore dell’uomo e richiedano un più raffinato livello di relazione, mentre il modello sociale in cui si vive è rimasto antiquato, crea una frattura nella quale l’individuo si sente inadeguato rispetto alla società e in molti casi tale inadeguatezza può sfociare in un disagio psichico o sociale.

Un indice di questa situazione di disagio è l’abbandono scolastico: una scuola che prevede l’adattamento dell’allievo ad un modello predefinito non corrisponde alla reale esigenza dei giovani contemporanei che sono più consapevoli, più informati e più evoluti e richiedono autonomia e spazio per la loro creatività. Rilevato il disagio, l’abbandono scolastico in questo caso, anziché analizzare da un punto di vista complesso la nuova realtà, quindi cambiare l’impianto scolastico pedagogico e formativo nel suo insieme e le sue finalità, resta legati ai vecchi schemi e si limita alla soluzione puntuale di ridurre gli obiettivi didattici, con il risultato che paradossalmente oggi la scuola fornisce meno strumenti di quelli che dava alla generazione precedente, pur essendo i giovani più informati e coscienti dei loro genitori, perciò, tra l’altro si annoiano terribilmente. Così facendo il disagio aumenta e non è solo degli allievi, ma anche dei docenti e di tutto il sistema che ha perso il senso della propria funzione.

Oppure l’Università che in nome di scelte economiche e di sviluppo che apparentemente sembrano logiche e razionali si organizza per offrire i propri corsi ad un numero chiuso di studenti in nome di un’efficienza del servizio determinando in questo modo una struttura antieconomica per definizione perché è come se un contadino piantasse una cassetta di patate sapendo che ne raccoglierà soltanto la metà, perché il servizio scolastico investe su tutta la nuova generazione e il proprio successo educativo e formativo dovrebbe misurarsi sull’aumento costante delle iscrizioni universitarie.

Inoltre pretendendo di fornire un servizio più efficiente rispetto al mondo del lavoro, obiettivo preso a giustificazione del numero chiuso, anche in questo caso invece di qualificare il servizio nella sua potenzialità pedagogica formativa di un percorso di studi che ha come obiettivo quello di creare e sviluppare una forma mentale più ampia e competente, la riduce ad una conoscenza specialistica ad una sola applicazione per il mondo del lavoro presente al momento dell’iscrizione e quindi che obbligatoriamente sarà in ritardo nel momento della conclusione del ciclo formativo rendendo il servizio inefficace, e antieconomico per la società intera.

La stessa democrazia, che è nata per tradurre in regole il volere della maggioranza, se oggi non viene qualificata non solo come potere della maggioranza, ma anche come strumento di evoluzione della libertà e della giustizia sociale è destinata a diventare una dittatura attraverso l’esercizio del voto per maggioranza.

Perciò ogni volta che si usa il termine globalizzazione bisogna definire con quale delle due accezioni si usa, per non creare un dialogo tra sordi o aumentare la confusione. Se si usa come finanziarizzazione della società, si sa che è una scelta, che si può tornare indietro e questa consapevolezza di poter cambiare quella che è solo una delle possibili politiche economiche, ci fa uscire da quel senso di impotenza che invece considerare ineluttabile gli avvenimenti può indurre.

Se si usa invece con il significato di cambiamento di schemi mentali e di nuovo modo in cui si concepisce lo spazio-tempo in cui uno vive, si prende atto della novità culturale in cui ci si trova e diventa esplicita la necessità di confrontarsi e il modo in cui porre le nuove coordinate.

In entrambi i casi si esce dall’immobilismo dovuto al disorientamento che la novità della condizione pone, ci si permette di uscire dall’attuale situazione simile ad una stanza buia e senza uscite, indicando un nuovo cammino che non sarà senza ostacoli, ma sarà sicuramente entusiasmante in quanto costituisce una nuova avventura umana.

Complessità

A questo punto è necessario rendersi conto che la globalizzazione pretende il pensiero complesso perché ogni persona diventa un punto di riferimento di tutta la realtà, è come un punto a cui tutti i fili che compongono lo spazio e il tempo, la terra e la storia convergono in esso e da qui si irradiano a seconda degli impulsi che ricevono dal punto di riferimento a cui sono legati.

Perciò la complessità non è il risultato di azioni o di linguaggi o realtà che si giustappongono in una forma molteplice e multicolore, ma è proprio una nuova realtà che ha fatto un salto o di dimensione, o di natura, o di senso.

Oggi si dice complessità e si parla di multidisciplinarietà, oppure di complicazione che sono due qualità contenute dalla complessità ma che non la rappresentano nella sua realtà, la possono in parte descrivere ma non la esauriscono e neppure la completano. Che cosa è allora la complessità?

La complessità è secondo me quell’elemento che discrimina, che si trova al limite, tra il dato consolidato e conosciuto e l’ignoto, il possibile, cioè quella nuova forma che rinnova il senso della realtà dandole continuità nel futuro perché aggiunge significato.

Questo nuovo significato confermando il senso da cui scaturisce lo ridefinisce ampliando o rinnovando le qualità della sua natura perché ne specifica le dimensioni che mettono in evidenza, valorizzandolo, il contesto in cui nasce e si rivela.

É un nuovo significato che non mette in contraddizione le sue parti perchè contiene tutto il processo ad una diversa dimensione, in una prospettiva più aperta; ti conferma il senso da cui deriva e ti apre a tutti i sensi, a tutte le direzioni e dimensioni. Da ora in avanti l’umanità dovrà imparare ad essere consapevole di questo modo di agire e di pensarlo e riconoscerlo, mentre fin’ora ci siamo considerati punti conseguenti di una linea infinita, siamo invece anche novità, originalità assoluta e imprevedibilità perché siamo unici, liberi e creativi. A questo nuovo modo di pensare dobbiamo allenarci, ce lo chiedono gli stessi strumenti tecnologici che abbiamo inventato: per governarli e non esserne governati, infatti in un processo di linearità e di quantità è più veloce la macchina, il nostro contributo è capire che noi siamo il senso e il significato della realtà. In breve siamo noi la complessità e la storia. Che siamo noi la complessità ce lo dicono i nostri sensi ed il nostro cervello che è predisposto a raccoglierli distinti e a unificarli nel definirci uni e collocandoci nel contesto che possiamo conoscere attraverso i sensi nella loro funzione specifica.

Queste operazioni che l’essere umano ha da sempre fatto secondo me ha anche imparato a farle sempre più consapevolmente e sempre più distinguendo dei vari sensi la loro capacità di funzionare per permetterci di distinguerci sempre di più dalla natura per collocarci e poterla conoscere .Questo comportamento umano secondo me è il processo di apprendimento che la nostra specie ha usato per evolversi e realizzare sempre di più le qualità che ci specificano a partire dalla nostra unicità che i nostri sensi definiscono e che usando il cervello per dare senso al loro funzionamento ne riconosciamo il valore: così facendo ci riconosciamo liberi e per questo creativi di darci gli strumenti per esercitarla sempre di più e sempre meglio. Sapere della nostra autonomia e della nostra capacità di distinguerci ci rende esseri ragionevoli cioè capaci di riflettere su ogni fase del processo di apprendimento tanto da creare oltre a riconoscere la ragione come proprietà specifica dell’uso del cervello anche la capacità di creare memoria e con questa produrre sedimentazione quindi profondità a ogni nostro gesto e azione qualificando il nostro spazio tanto da creare il tempo nella sua trasformazione, la storia.

Sapere che abbiamo la ragione e che la sua funzione è distinguere senza separare e unificare il molteplice senza ridurlo alle sue parti (vedi “Dare speranza al futuro”, corso per una nuova antropologia di Angela Volpini) ci permette di capire cosa è la complessità, come si è evoluta nella storia e quindi dove siamo e come possiamo crearla.

Per esempio un filo d’erba con una foglia ed una corolla di petali con i suoi stami e pistilli diventa il fiore: questo è un atto di complessità perché sintetizza in un nuovo significato la molteplicità precedente e apre ad un nuovo mondo quello dei fiori di cui se ne potranno classificare da ora in poi centinaia di migliaia di specie. Oppure che uno che definisce la quantità diventi unità è un cambio di natura perchè descrive un concetto che può ulteriormente evolversi in unicità che è un cambio di senso perchè descrive un valore che contiene gli altri due passaggi trasformandoli ma che nella riflessione puoi ritrovare e riconoscere il processo evolutivo da linguaggio lineare ad un linguaggio complesso. Gli esseri umani spontaneamente trasformano il molteplice in complessità perché siamo fatti così a partire dai nostri sensi che presi singolarmente come semplici meccanismi non funzionerebbero come li usiamo ma li conosciamo come strumenti che ci permettono di conoscere ciò che ci circonda perché lavorano complessivamente agli altri sensi , ciascuno strettamente legato agli altri tanto da trasformare la capacità per esempio delle orecchie di distinguere suoni dal rumore e poi di individuarli in suoni composti che chiamiamo parole lo facciamo perché gli altri quattro sensi ci permettono di distinguere tra le altre forme e frequenze delle onde elettromagnetiche quelle che formano i suoni e che le nostre orecchie sono predisposte a raccogliere e elaborare fino a renderle a noi funzionali.

Oggi è urgente esercitare il pensiero complesso perché è l’unico che non crea contraddizione tra i singoli elementi che compongono la realtà perché contengono tutto il processo e lo trasformano ad un altro livello da cui poi si possono sfilare per usarlo e praticarlo tutti i linguaggi specialistici che in questi secoli abbiamo definito e sperimentato sempre meglio.

Inoltre siccome il pensiero complesso è espressione della nostra creatività ci diamo le condizioni per renderci capaci di utilizzare le nuove tecnologie senza farci sopraffare dalla loro efficienza ma strumenti indispensabili al mantenimento della qualità umana a cui siamo giunti per poterla distribuire a tutti e permetterci di pensare allo sviluppo della qualità umana in piena consapevolezza della nostra potenzialità e quindi con la capacità di progetto e controllo di possibili scelte non del tutto positive o favorevoli all’umanità.