Grazia Baroni su “Linguaggio, storia e futuro”
Guardando la situazione nazionale e internazionale, i temi che qui vengono proposti per una riflessione possono apparire marginali; invece, un loro approfondimento potrebbe segnare un vero cambiamento nei rapporti tra gli Stati e tra i governi e i cittadini. Il fatto che per la prima volta sia stata eletta presidente una donna ha creato nuove speranze, che sono state a breve disattese, fra le proposte del nuovo governo non emerge un rinnovarsi delle priorità, un modo nuovo di interazione tra forze politiche, si propone ancora sempre la mentalità della contrapposizione ritornando al rapporto di forza.
E pensare che la donna nella storia ha accumulato un patrimonio di sapienza in millenni di maternità nel creare comunità mettendo al centro lo sviluppo e la realizzazione di ogni persona creando spontaneamente realtà sociali nella costruzione di nuclei famigliari a fondamento delle civiltà.
Il gusto di riuscire a costruire un ambiente armonioso nel quale si facilita la vita agli altri, privilegiando l’aspetto relazionale, non richiede altro riconoscimento; per questo la donna non ha avuto e non ha bisogno di dimostrare le sue capacità e di mettersi in competizione. Trae soddisfazione e la conferma della bontà delle proprie scelte dalle relazioni che riesce a creare attorno a sé. Il valore aggiunto di un governo con una donna a capo avrebbe quindi potuto essere quello di sostenere e incentivare la realizzazione profonda e articolata di ciascuna persona e la cura dell’ambiente. Mettere al centro l’essere umano con tutti i suoi desideri, prospettive, diritti e dignità è darsi lo strumento che indica ciò che è necessario attuare, le priorità da soddisfare e il percorso da seguire per migliorare la società. Sarebbe un passo verso una vera innovazione della convivenza di cui abbiamo più che mai bisogno ed è una scelta ancora possibile.
Però nel suo recentissimo discorso programmatico il nuovo governo, parlando del concetto di patria, ha riconosciuto il Risorgimento come sua origine, ma ha saltato a piè pari la Costituzione del ’48, frutto anche della lotta partigiana a cui ha partecipato tutto l’arco politico. Questa omissione, non è stata fatta in nome dell’unità, ma solo per esaltare il concetto di sovranità nazionale contrapponendolo al progetto dell’Unione Europea come soggetto politico unitario. L’unità d’Italia, invece, è nata dalla ricerca della libertà per tutti, così come il progetto dell’Unione Europea è stato organizzato come passo necessario alla realizzazione della pace.
Il processo storico che ha permesso la costruzione dell’Italia come stato unitario e sovrano era stato quello corretto, perché non ha vietato nulla, ma ha proposto un progetto più evoluto e più inclusivo di quello esistente. Con l’unità prima e la Costituzione italiana poi si è fatta l’Italia sulla creazione di servizi nazionali: la scuola, la posta, le ferrovie e il servizio di leva; pensando all’Italia come il progetto che valorizzava le storie delle singole regioni. Ogni regione ha mantenuto le proprie tradizioni e specificità, infatti non si sono omologate le abitudini culinarie delle singole località, non si è proibito la celebrazione delle feste, dei costumi locali e neppure l’uso dei dialetti ma si è proposta la lingua italiana come strumento unificante di comunicazione.
Oggi la proposta politica rinnovatrice e aperta al futuro dovrebbe uscire dall’ottica dell’Italia delle regioni con le sue autonomie, contraria all’attuale realtà italiana, e concepirsi come parte della realtà europea; la quale, a sua volta, dovrebbe uscire dalla logica delle singole nazioni. Dire questo oggi sfiora il sacrilegio, infatti apparentemente l’autonomia è il concetto più coerente e più vicino all’idea di democrazia, in quanto sembrerebbe garantire delle libertà. Ma non è così. Adesso l’autonomia è intesa come conservazione di privilegi. Ma la democrazia non ammette privilegi, si basa sulla capacità di integrazione delle diversità. Dunque è il riconoscere e qualificare le peculiarità come il valore aggiunto della società intera, come recita il motto dell’unione Europea: “Unita nelle diversità”.
Bisogna ricordare che per costruire l’Italia si è fatto capo ai Savoia perché questo casato non aveva mai rinnegato lo Statuto Albertino, la costituzione, che garantiva le libertà: di stampa, di opinione, di religione, di riunione, di proprietà privata, di inviolabilità del domicilio, di uguaglianza mentre Parma e Piacenza, Lombardo-Veneto, Gran ducato di Toscana, Stato della Chiesa e Regno delle due Sicilie avevano rinnegato i propri Statuti. È l’aspetto democratico quello che ha unito l’Italia; infatti, gli altri territori si sono legati al Regno di Sardegna spontaneamente, per plebiscito alcuni e per partecipazione popolare alla Spedizione dei Mille gli altri.
La forma dello Stato si è poi perfezionata dopo il Fascismo con la scelta della Repubblica invece della monarchia e con la Costituzione del ’48, costruita sulla libertà come valore difeso e sostenuto dalla Resistenza. Scrivere questa Costituzione ha significato rendere attualizzabili e praticabili i principi democratici, perché è un testo condiviso e nato in un momento in cui si aveva molto chiaro il significato del concetto di libertà personale e di giustizia sociale: dare a tutti le medesime possibilità.
La democrazia rende altrettanto chiaro il fatto che riconoscere pari dignità alle persone non significa considerarle uguali, omologarle, come invece fanno tutte le dittature e i governi autocratici. Mai come ora la necessità di chiarire il significato di alcune parole è diventata ineludibile; difatti, con l’accumulo nel tempo di approssimazione su approssimazione, come è proprio di ciò che è vissuto quotidianamente, il loro uso ne è diventato distorsivo. Ne sono un esempio, i termini: autonomia, diversità, sovranità e identità.
A questo punto l’uso corretto del linguaggio è determinante nella definizione e nella comunicazione del concetto. Usare le parole con la forma più appropriata rispetto al soggetto cui si riferiscono, è fondamentale per non deformare i principi che guidano una nazione. Come già detto questo vale per la parola autonomia, ma anche per “sovranità” e “identità”. Il concetto di sovranità nazionale riporta al nazionalismo, riconduce ancora una volta alla dimensione feudale, se non tribale. L’unico soggetto che può essere sovrano in democrazia è la persona, sovrana di sé stessa, altrimenti si ripropone una realtà in cui la sovranità è indice di proprietà, assolutamente fuori luogo oggi, quando il termine nazione indica un reciproco riconoscimento di valori e non un possesso.
Pensiamo poi al concetto di “identità” che va benissimo rispetto alla persona, ma diventa strumento di razzismo e esclusione degli altri quando le si aggiunge un aggettivo come in “culturale”. L’identità sottolinea l’unicità in cui si riconosce la persona, come l’impronta digitale non separa in categorie non massifica e non esclude.
Sollevare il tema dell’autonomia regionale è l’effetto di una realtà che non ha risolto il problema del nazionalismo, cioè il far coincidere il concetto di Nazione al concetto di Stato. Il termine Nazione nasce dal fatto che un popolo si è riconosciuto nel dare valore alla vita, nei suoi nati, anziché nei morti – mentre gli altri popoli si riconoscevano come appartenenti al territorio in cui erano sepolti gli avi.
La cultura occidentale inizia a costruirsi e a distinguersi dando valore alla vita e continua evolvendosi nella conquista della libertà fino a raggiungere la democrazia che è la libertà di tutti e per tutti. Lo Stato, invece, definisce un progetto di convivenza organizzata da condividere; è la definizione del processo di concretizzazione delle conquiste civili che hanno permesso l’uscita dal feudalesimo che era la suddivisione dei territori con i loro abitanti in piccole proprietà, appartenenti invariabilmente a un Signore. Invece Lo Stato è un progetto condiviso dai membri che lo compongono. Per costruirlo sono necessarie le Istituzioni che rappresentano lo scheletro con cui si realizza il progetto.
Far coincidere questi due concetti porta a pensare che il diritto garantito dal progetto di Stato spetti al cittadino per la sua appartenenza di sangue; insomma riporta la dimensione tribale là dove dovrebbe esserci una libera scelta di valori condivisi, riconosciuti e migliorati da ciascuno.
La consapevolezza di partecipare ad un progetto di convivenza comune e condiviso, infatti, è la base su cui si costruisce la democrazia: l’assunzione di responsabilità, non l’appartenenza di sangue.
Per questo motivo è la stessa democrazia che garantisce il rispetto delle peculiarità territoriali, non ci sarebbe necessità di ulteriori specificazioni
Il progetto politico è e resta l’unità dell’Italia le cui caratteristiche che del resto corrispondono a quelle dell’unità europea, sono: il diritto della persona, la giustizia sociale e la pace.
Per questo ritengo che la modifica del titolo quinto della Costituzione del 1997 sia ideologica, approssimativa e insufficiente: non ha tenuto conto della necessità di conservare il carattere, almeno nazionale, delle Istituzioni, quando avrebbe dovuto addirittura incominciare a modularle a livello europeo. L’applicazione del titolo quinto come autonomie politiche ha ricreato 21 stati, ha ridotto l’unità nazionale ad una imperfetta confederazione. Ha peggiorato la qualità della vita e ha aggravato i conti pubblici. I servizi pubblici, nel loro spezzettamento in dimensioni regionali, sono stati ridotti ad aziende gestite come società per azioni, finalizzate alla produzione di profitto, perdendo la qualità di servizio al cittadino. Ancor più grave, questo non è stato condiviso come progetto con la cittadinanza in modo democratico, anche se sottoposta a referendum, perché, la cittadinanza è stata manipolata attraverso i mezzi di informazione, per farle accettare la trasformazione.
Se la qualità democratica viene meno, si dà spazio al modello liberista che tende ad omologare ogni aspetto della realtà ad un unico metro, quello del profitto, creando squilibri sociali e diseconomie.
Se le differenze vengono esaltate per squalificare l’altro, cioè si parte dalle particolarità nazionali e le si difende imponendole come muri invalicabili, invece di essere funzionali, diventano ostacoli allo sviluppo economico e alla realizzazione di un progetto politico che oggi è assolutamente necessario nel quadro mondiale. La mancanza dell’Unione Europea si sente in tutti i campi: l’Europa potrebbe essere il mediatore in grado di costruire le condizioni necessarie alla pace, anzi con l’Europa come stato democratico e unitario la guerra in Ucraina non ci sarebbe neppure stata. Anche le speculazioni su gas e petrolio non ci sarebbero o sarebbero molto meno importanti.
Perché il progetto europeo non regredisca ma migliori, è necessario capire che è a partire dalla realizzazione politica dell’Unione europea che si rendono efficaci e utili le particolarità dei singoli stati: non solo si salvaguardano, ma si rendono funzionali alla complessità della realtà europea e mondiale. Se si riconoscessero gli aspetti migliori di ciascun paese e si condividessero, migliorerebbe la qualità della vita di tutti e soprattutto si potrebbe iniziare un processo di convivenza mondiale aperto. Il futuro non sarebbe più un baratro minaccioso ma un vero spazio di speranza.
E pensare che la donna nella storia ha accumulato un patrimonio di sapienza in millenni di maternità nel creare comunità mettendo al centro lo sviluppo e la realizzazione di ogni persona creando spontaneamente realtà sociali nella costruzione di nuclei famigliari a fondamento delle civiltà.
Il gusto di riuscire a costruire un ambiente armonioso nel quale si facilita la vita agli altri, privilegiando l’aspetto relazionale, non richiede altro riconoscimento; per questo la donna non ha avuto e non ha bisogno di dimostrare le sue capacità e di mettersi in competizione. Trae soddisfazione e la conferma della bontà delle proprie scelte dalle relazioni che riesce a creare attorno a sé. Il valore aggiunto di un governo con una donna a capo avrebbe quindi potuto essere quello di sostenere e incentivare la realizzazione profonda e articolata di ciascuna persona e la cura dell’ambiente. Mettere al centro l’essere umano con tutti i suoi desideri, prospettive, diritti e dignità è darsi lo strumento che indica ciò che è necessario attuare, le priorità da soddisfare e il percorso da seguire per migliorare la società. Sarebbe un passo verso una vera innovazione della convivenza di cui abbiamo più che mai bisogno ed è una scelta ancora possibile.
Però nel suo recentissimo discorso programmatico il nuovo governo, parlando del concetto di patria, ha riconosciuto il Risorgimento come sua origine, ma ha saltato a piè pari la Costituzione del ’48, frutto anche della lotta partigiana a cui ha partecipato tutto l’arco politico. Questa omissione, non è stata fatta in nome dell’unità, ma solo per esaltare il concetto di sovranità nazionale contrapponendolo al progetto dell’Unione Europea come soggetto politico unitario. L’unità d’Italia, invece, è nata dalla ricerca della libertà per tutti, così come il progetto dell’Unione Europea è stato organizzato come passo necessario alla realizzazione della pace.
Il processo storico che ha permesso la costruzione dell’Italia come stato unitario e sovrano era stato quello corretto, perché non ha vietato nulla, ma ha proposto un progetto più evoluto e più inclusivo di quello esistente. Con l’unità prima e la Costituzione italiana poi si è fatta l’Italia sulla creazione di servizi nazionali: la scuola, la posta, le ferrovie e il servizio di leva; pensando all’Italia come il progetto che valorizzava le storie delle singole regioni. Ogni regione ha mantenuto le proprie tradizioni e specificità, infatti non si sono omologate le abitudini culinarie delle singole località, non si è proibito la celebrazione delle feste, dei costumi locali e neppure l’uso dei dialetti ma si è proposta la lingua italiana come strumento unificante di comunicazione.
Oggi la proposta politica rinnovatrice e aperta al futuro dovrebbe uscire dall’ottica dell’Italia delle regioni con le sue autonomie, contraria all’attuale realtà italiana, e concepirsi come parte della realtà europea; la quale, a sua volta, dovrebbe uscire dalla logica delle singole nazioni. Dire questo oggi sfiora il sacrilegio, infatti apparentemente l’autonomia è il concetto più coerente e più vicino all’idea di democrazia, in quanto sembrerebbe garantire delle libertà. Ma non è così. Adesso l’autonomia è intesa come conservazione di privilegi. Ma la democrazia non ammette privilegi, si basa sulla capacità di integrazione delle diversità. Dunque è il riconoscere e qualificare le peculiarità come il valore aggiunto della società intera, come recita il motto dell’unione Europea: “Unita nelle diversità”.
Bisogna ricordare che per costruire l’Italia si è fatto capo ai Savoia perché questo casato non aveva mai rinnegato lo Statuto Albertino, la costituzione, che garantiva le libertà: di stampa, di opinione, di religione, di riunione, di proprietà privata, di inviolabilità del domicilio, di uguaglianza mentre Parma e Piacenza, Lombardo-Veneto, Gran ducato di Toscana, Stato della Chiesa e Regno delle due Sicilie avevano rinnegato i propri Statuti. È l’aspetto democratico quello che ha unito l’Italia; infatti, gli altri territori si sono legati al Regno di Sardegna spontaneamente, per plebiscito alcuni e per partecipazione popolare alla Spedizione dei Mille gli altri.
La forma dello Stato si è poi perfezionata dopo il Fascismo con la scelta della Repubblica invece della monarchia e con la Costituzione del ’48, costruita sulla libertà come valore difeso e sostenuto dalla Resistenza. Scrivere questa Costituzione ha significato rendere attualizzabili e praticabili i principi democratici, perché è un testo condiviso e nato in un momento in cui si aveva molto chiaro il significato del concetto di libertà personale e di giustizia sociale: dare a tutti le medesime possibilità.
La democrazia rende altrettanto chiaro il fatto che riconoscere pari dignità alle persone non significa considerarle uguali, omologarle, come invece fanno tutte le dittature e i governi autocratici. Mai come ora la necessità di chiarire il significato di alcune parole è diventata ineludibile; difatti, con l’accumulo nel tempo di approssimazione su approssimazione, come è proprio di ciò che è vissuto quotidianamente, il loro uso ne è diventato distorsivo. Ne sono un esempio, i termini: autonomia, diversità, sovranità e identità.
A questo punto l’uso corretto del linguaggio è determinante nella definizione e nella comunicazione del concetto. Usare le parole con la forma più appropriata rispetto al soggetto cui si riferiscono, è fondamentale per non deformare i principi che guidano una nazione. Come già detto questo vale per la parola autonomia, ma anche per “sovranità” e “identità”. Il concetto di sovranità nazionale riporta al nazionalismo, riconduce ancora una volta alla dimensione feudale, se non tribale. L’unico soggetto che può essere sovrano in democrazia è la persona, sovrana di sé stessa, altrimenti si ripropone una realtà in cui la sovranità è indice di proprietà, assolutamente fuori luogo oggi, quando il termine nazione indica un reciproco riconoscimento di valori e non un possesso.
Pensiamo poi al concetto di “identità” che va benissimo rispetto alla persona, ma diventa strumento di razzismo e esclusione degli altri quando le si aggiunge un aggettivo come in “culturale”. L’identità sottolinea l’unicità in cui si riconosce la persona, come l’impronta digitale non separa in categorie non massifica e non esclude.
Sollevare il tema dell’autonomia regionale è l’effetto di una realtà che non ha risolto il problema del nazionalismo, cioè il far coincidere il concetto di Nazione al concetto di Stato. Il termine Nazione nasce dal fatto che un popolo si è riconosciuto nel dare valore alla vita, nei suoi nati, anziché nei morti – mentre gli altri popoli si riconoscevano come appartenenti al territorio in cui erano sepolti gli avi.
La cultura occidentale inizia a costruirsi e a distinguersi dando valore alla vita e continua evolvendosi nella conquista della libertà fino a raggiungere la democrazia che è la libertà di tutti e per tutti. Lo Stato, invece, definisce un progetto di convivenza organizzata da condividere; è la definizione del processo di concretizzazione delle conquiste civili che hanno permesso l’uscita dal feudalesimo che era la suddivisione dei territori con i loro abitanti in piccole proprietà, appartenenti invariabilmente a un Signore. Invece Lo Stato è un progetto condiviso dai membri che lo compongono. Per costruirlo sono necessarie le Istituzioni che rappresentano lo scheletro con cui si realizza il progetto.
Far coincidere questi due concetti porta a pensare che il diritto garantito dal progetto di Stato spetti al cittadino per la sua appartenenza di sangue; insomma riporta la dimensione tribale là dove dovrebbe esserci una libera scelta di valori condivisi, riconosciuti e migliorati da ciascuno.
La consapevolezza di partecipare ad un progetto di convivenza comune e condiviso, infatti, è la base su cui si costruisce la democrazia: l’assunzione di responsabilità, non l’appartenenza di sangue.
Per questo motivo è la stessa democrazia che garantisce il rispetto delle peculiarità territoriali, non ci sarebbe necessità di ulteriori specificazioni
Il progetto politico è e resta l’unità dell’Italia le cui caratteristiche che del resto corrispondono a quelle dell’unità europea, sono: il diritto della persona, la giustizia sociale e la pace.
Per questo ritengo che la modifica del titolo quinto della Costituzione del 1997 sia ideologica, approssimativa e insufficiente: non ha tenuto conto della necessità di conservare il carattere, almeno nazionale, delle Istituzioni, quando avrebbe dovuto addirittura incominciare a modularle a livello europeo. L’applicazione del titolo quinto come autonomie politiche ha ricreato 21 stati, ha ridotto l’unità nazionale ad una imperfetta confederazione. Ha peggiorato la qualità della vita e ha aggravato i conti pubblici. I servizi pubblici, nel loro spezzettamento in dimensioni regionali, sono stati ridotti ad aziende gestite come società per azioni, finalizzate alla produzione di profitto, perdendo la qualità di servizio al cittadino. Ancor più grave, questo non è stato condiviso come progetto con la cittadinanza in modo democratico, anche se sottoposta a referendum, perché, la cittadinanza è stata manipolata attraverso i mezzi di informazione, per farle accettare la trasformazione.
Se la qualità democratica viene meno, si dà spazio al modello liberista che tende ad omologare ogni aspetto della realtà ad un unico metro, quello del profitto, creando squilibri sociali e diseconomie.
Se le differenze vengono esaltate per squalificare l’altro, cioè si parte dalle particolarità nazionali e le si difende imponendole come muri invalicabili, invece di essere funzionali, diventano ostacoli allo sviluppo economico e alla realizzazione di un progetto politico che oggi è assolutamente necessario nel quadro mondiale. La mancanza dell’Unione Europea si sente in tutti i campi: l’Europa potrebbe essere il mediatore in grado di costruire le condizioni necessarie alla pace, anzi con l’Europa come stato democratico e unitario la guerra in Ucraina non ci sarebbe neppure stata. Anche le speculazioni su gas e petrolio non ci sarebbero o sarebbero molto meno importanti.
Perché il progetto europeo non regredisca ma migliori, è necessario capire che è a partire dalla realizzazione politica dell’Unione europea che si rendono efficaci e utili le particolarità dei singoli stati: non solo si salvaguardano, ma si rendono funzionali alla complessità della realtà europea e mondiale. Se si riconoscessero gli aspetti migliori di ciascun paese e si condividessero, migliorerebbe la qualità della vita di tutti e soprattutto si potrebbe iniziare un processo di convivenza mondiale aperto. Il futuro non sarebbe più un baratro minaccioso ma un vero spazio di speranza.