Morire per strada: una riflessione sulla povertà invisibile
Sul blog
Alessandria Today Italia News Media
(https://alessandria.today)
è stata pubblicata un riflessione di
Paola Ferrari
a nome di DemoS Alessandria
sulla morte in solutudine di Mohamed avvenuta di recente ad Alessandria.
Quando una persona muore per strada, su una panchina, è sempre una sconfitta per tutti. Avremmo voluto fare di più, e del resto chi non vorrebbe fare sempre di più? Sentiamo la morte di Mohamed come una sconfitta, perché andarsene in solitudine è un cazzotto nello stomaco ai tentativi di una città di essere solidale e attenta ai bisogni dei più fragili.
Oggi non sempre la povertà si traduce in persone mal vestite e senza soldi in tasca. Povertà equivale sempre più spesso alla perdita delle relazioni con la famiglia prima e con gli amici poi. Auspichiamo che questa morte non venga dimenticata in fretta ma possa essere richiamo continuo a quei valori di umanità che diamo per scontati mentre invece la nostra vita sempre più di fretta e distratta ci rende incapaci di accorgerci dei dolori e delle sconfitte di chi è più debole.
Ci sono tante storie infelici che molti fingono di non vedere. Ma non si può vivere solo per sé stessi. Dobbiamo aiutarli. Nelle nostre città ci sono tante persone invisibili. Non appaiono agli occhi della stragrande maggioranza dei cittadini.
Misurarne il numero è difficile. Si finisce per strada per infiniti motivi: per un fallimento coniugale, la perdita della casa o del lavoro, la malattia, o altro. A volte gli invisibili non sono italiani: vengono da lontano. Non hanno talvolta documenti. Ci sono stime per cui i senza fissa dimora sarebbero in Italia più di cinquantamila. Una città nelle città.
Ma non sono una città, una comunità: sono un fascio di storie personali segnate in profondità dall’assenza di legami, nascoste nelle pieghe di una popolazione che passa affrettata accanto a loro e che talvolta non sa come comportarsi. Alcuni cercano casa; altri, abituati alla strada, quasi ne hanno paura.
Ogni uomo e ogni donna ha una storia, qualche volta assai particolare. Una grande lezione viene dai volontari, una rete che raccoglie questi cittadini particolari, mostrando che la città non è matrigna.
Anzi, la parte più debole ha più bisogno di solidarietà. Così gli invisibili emergono dall’anonimato, che è assenza di diritti e di connessione con le istituzioni. Li vediamo, ad esempio, accedere alle mense caritatevoli, accolti dai volontari, finalmente parte di una città che si prende cura di loro.
Ma chi sono questi volontari? L’espressione è generica, ma la loro realtà importante. Le loro motivazioni sono diverse, ma in fondo si riducono a una sola: non si può vivere solo pensando a sé stessi.
Sono persone che hanno rotto la barriera che separa dagli invisibili, hanno superato la paura di fermarsi con persone “strane”. Li hanno riconosciuti come donne e uomini: non solo bisognosi di aiuto, ma anche di parlare, di amicizia, di essere chiamati per nome e di non essere solo un caso sociale.
I volontari sono l’avanguardia della città che vorremmo: città fraterna, anche se fatta di gente diversa. Gli invisibili sono l’espressione di una città che ha lasciato fuoriuscire dai circuiti persone ferite, che non trovavano spazio in essa. Una città matrigna.
C’è un serio problema di politica sociale. Ma ognuno di noi, superando abitudini e distanze, può aiutare. Può incontrarli e scoprire che dietro quella donna un po’ strana o quell’uomo malvestito dalla barba non rasata, si nasconde uno come me, che ha voglia di vivere e di amicizia. Una città più fraterna comincia da me, da noi.
Molti del popolo della strada coprono la loro storia con racconti fantasiosi. Mancano di tutto, ma hanno un senso profondo della loro dignità e delle loro scelte.
La chiave con cui ci si deve avvicinare è in primo luogo l’amicizia. Chi ha bisogno di tutto, infatti, ha soprattutto bisogno di amicizia. Gregorio Magno insegnava che i poveri hanno necessità, come tutti, di amicizia. Molti volontari, pensiamo a quelli della Comunità di Sant’Egidio – oppure per rimanere ad Alessandria della Caritas, di Casa San Francesco e della Casa di Quartiere – hanno capito come bisogna tessere una rete di amicizia tra le persone sole e abbandonate. È un bisogno vitale, ma anche una salvaguardia nelle tante difficoltà della dura vita per strada.
Oggi non sempre la povertà si traduce in persone mal vestite e senza soldi in tasca. Povertà equivale sempre più spesso alla perdita delle relazioni con la famiglia prima e con gli amici poi. Auspichiamo che questa morte non venga dimenticata in fretta ma possa essere richiamo continuo a quei valori di umanità che diamo per scontati mentre invece la nostra vita sempre più di fretta e distratta ci rende incapaci di accorgerci dei dolori e delle sconfitte di chi è più debole.
Ci sono tante storie infelici che molti fingono di non vedere. Ma non si può vivere solo per sé stessi. Dobbiamo aiutarli. Nelle nostre città ci sono tante persone invisibili. Non appaiono agli occhi della stragrande maggioranza dei cittadini.
Misurarne il numero è difficile. Si finisce per strada per infiniti motivi: per un fallimento coniugale, la perdita della casa o del lavoro, la malattia, o altro. A volte gli invisibili non sono italiani: vengono da lontano. Non hanno talvolta documenti. Ci sono stime per cui i senza fissa dimora sarebbero in Italia più di cinquantamila. Una città nelle città.
Ma non sono una città, una comunità: sono un fascio di storie personali segnate in profondità dall’assenza di legami, nascoste nelle pieghe di una popolazione che passa affrettata accanto a loro e che talvolta non sa come comportarsi. Alcuni cercano casa; altri, abituati alla strada, quasi ne hanno paura.
Ogni uomo e ogni donna ha una storia, qualche volta assai particolare. Una grande lezione viene dai volontari, una rete che raccoglie questi cittadini particolari, mostrando che la città non è matrigna.
Anzi, la parte più debole ha più bisogno di solidarietà. Così gli invisibili emergono dall’anonimato, che è assenza di diritti e di connessione con le istituzioni. Li vediamo, ad esempio, accedere alle mense caritatevoli, accolti dai volontari, finalmente parte di una città che si prende cura di loro.
Ma chi sono questi volontari? L’espressione è generica, ma la loro realtà importante. Le loro motivazioni sono diverse, ma in fondo si riducono a una sola: non si può vivere solo pensando a sé stessi.
Sono persone che hanno rotto la barriera che separa dagli invisibili, hanno superato la paura di fermarsi con persone “strane”. Li hanno riconosciuti come donne e uomini: non solo bisognosi di aiuto, ma anche di parlare, di amicizia, di essere chiamati per nome e di non essere solo un caso sociale.
I volontari sono l’avanguardia della città che vorremmo: città fraterna, anche se fatta di gente diversa. Gli invisibili sono l’espressione di una città che ha lasciato fuoriuscire dai circuiti persone ferite, che non trovavano spazio in essa. Una città matrigna.
C’è un serio problema di politica sociale. Ma ognuno di noi, superando abitudini e distanze, può aiutare. Può incontrarli e scoprire che dietro quella donna un po’ strana o quell’uomo malvestito dalla barba non rasata, si nasconde uno come me, che ha voglia di vivere e di amicizia. Una città più fraterna comincia da me, da noi.
Molti del popolo della strada coprono la loro storia con racconti fantasiosi. Mancano di tutto, ma hanno un senso profondo della loro dignità e delle loro scelte.
La chiave con cui ci si deve avvicinare è in primo luogo l’amicizia. Chi ha bisogno di tutto, infatti, ha soprattutto bisogno di amicizia. Gregorio Magno insegnava che i poveri hanno necessità, come tutti, di amicizia. Molti volontari, pensiamo a quelli della Comunità di Sant’Egidio – oppure per rimanere ad Alessandria della Caritas, di Casa San Francesco e della Casa di Quartiere – hanno capito come bisogna tessere una rete di amicizia tra le persone sole e abbandonate. È un bisogno vitale, ma anche una salvaguardia nelle tante difficoltà della dura vita per strada.